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CONVEGNO ANNUALE RAPPORTI BANCA – IMPRESA Ancona – 8 Aprile 2019

ANCONA – 8 APRILE 2019

La difesa legale e il contrasto giurisprudenziale nella rivendicazione degli indebiti bancari

Il contenzioso bancario costituisce oggi uno dei filoni predominanti nelle aule di giustizia italiane: basti pensare che se nel 2003 la Corte di Cassazione ha pronunciato 76 ordinanze o sentenze in materia bancaria, nel 2017 questo dato è salito vertiginosamente a 436[1]!

In realtà il contenzioso bancario rappresenta una “creatura” relativamente giovane giacché questo filone nell’accezione in cui lo intendiamo oggi si è sviluppato con forza negli anni ’90 e nell’epoca in cui la prima sezione civile della Suprema Corte pronunciava l’innovativa sentenza n. 2374[2] del 1999 che sanciva per la prima volta l’illegittimità della pratica anatocistica applicata dalle banche italiane.

In effetti sino a quel momento la giurisprudenza era stata sempre concorde nell’affermare l’esistenza di un uso normativo tale da consentire la deroga, nei rapporti tra banca e cliente, ai limiti posti dall’art. 1283 c.c.

La citata sentenza n. 2374/1999, dopo una magistrale indagine giuridica sull’esistenza di un uso normativo in tema di anatocismo, giungeva invece ad affermare per la prima volta che la prassi della capitalizzazione degli interessi fosse basata su un uso negoziale e non su una norma di carattere consuetudinario, statuendo la radicale nullità della clausola contrattuale fino ad allora applicata universalmente dalle banche italiane in conformità alle norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi predisposte dall’ABI con effetto dal 1° gennaio 1952.

Nella stessa direzione si mosse subito dopo anche la terza sezione civile della Suprema Corte con la pressoché coeva sentenza n. 3096/1999 con la quale vennero ribaditi e ripresi i principi di diritto espressi dalla sentenza n. 2374/1999.

In realtà simili (illuminati) interventi giurisprudenziali rappresentavano il primo segnale di recepimento (a livello giurisprudenziale) del cambio di rotta nei rapporti tra banca cliente già sperimentato a livello legislativo dapprima con L. 154/1992 – “Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari”, con il D.Lgs n. 385/1993 – “Testo Unico Bancario” e con la L. 108/1996 – “Disposizioni in materia di usura”.

Si tratta in effetti di interventi legislativi di fondamentale importanza per aver di fatto tentato di riequilibrare i rapporti tra banca e cliente in un sistema che sino ad allora era stato votato all’esclusiva tutela degli interessi filo – bancari.

Un’interruzione rispetto al descritto trend è tuttavia rappresentato dal D.Lgs n. 342/1999 (cd. anche Decreto Salvabanche) con il quale il Governo tentava di arginare la portata innovativa delle due sentenze della Corte di Cassazione del 1999 in materia di anatocismo.

Invertendo l’orientamento seguito dalla Suprema Corte, l’art. 25 comma 2 del suindicato decreto legislativo[3] – inserito all’art. 120 del D.Lgs. 385/93 – demandava al Comitato Interministeriale per il Credito e per il Risparmio (CICR) il compito di individuare le modalità ed i criteri per la produzione degli interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria. Con la delibera in parola dell’8.02.2000 rendeva legittima per le banche l’applicazione dell’anatocismo seppur condizionato ad una uniforme periodicità degli interessi a debito e a credito[4].  Ciò comportava quindi che l’anatocismo  ”tornasse” ad essere legittimo in condizioni di parità tra Banca e cliente.

L’art. 25 al comma 3[5] disponeva inoltre una sanatoria per le clausole contrattuali sulla capitalizzazione degli interessi contenute nei contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della delibera del CICR, salvo successivo adeguamento ai principi in essa espressi[6].

È evidente che con questo intervento il Governo abbia tentato di attuare un ritorno al passato, non solo dettando regole relative agli obblighi già sorti in base alla disciplina precedente, ma riconoscendo come valide delle convenzioni la cui legittimità era stata in primis negata dall’art. 1283 c.c. e poi definitivamente demolita dalla doppia pronuncia della Suprema Corte.

Un simile tentativo del Governo fu tuttavia (e fortunatamente per gli utenti) oggetto di censura da parte della Corte Costituzionale (Sentenza n. 425/2000[7]): dichiarata l’incostituzionalità del terzo comma dell’art. 25 della Delibera CICR veniva meno la possibilità di sanare l’efficacia di pattuizioni anatocistiche preesistenti. Per effetto del menzionato arresto della Corte Costituzionale dunque le clausole anatocistiche preesistenti all’entrata in vigore della delibera CICR continuavano ad essere regolate, secondo i principi che regolano la successione di leggi nel tempo, dalla normativa anteriormente in vigore[8].

Il dibattito sulla pratica anatocistica non era tuttavia ancora destinato a scomparire dalle aule giudiziarie italiane giacché, subito dopo il fallimento del tentativo di sanatoria posto in essere dal Governo, le banche sperimentarono una nuova via per “salvare” gli effetti dell’anatocismo quantomeno fino al 1999 (anno del noto mutamento dell’indirizzo giurisprudenziali di cui si è dato atto in apertura). Le banche infatti iniziarono ad eccepire che la giurisprudenza di legittimità del ’99 avesse erroneamente escluso l’esistenza di un pregresso uso normativo tale da integrare il presupposto previsto dall’art. 1283 c.c.

Il contrasto giurisprudenziale generato fu tale da rendere necessario un nuovo intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte che con Sentenza n. 21095/2004[9] chiarirono definitivamente che “le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo 1283 c.c.), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.

In parte accantonata la spinosa questione della legittimità della pratica anatocistica, il dibattito del contenzioso bancario iniziò progressivamente a spostarsi verso la questione della prescrizione, poiché le banche (convenute o opposte) iniziarono a spendere in giudizio la difesa dell’avvenuta prescrizione delle somme contestate e/o richieste in restituzione dal correntista.

Al cospetto delle sempre più frequenti eccezioni proposte dalle banche, la giurisprudenza di merito e di Cassazione predominante aveva qualificato il rapporto di conto corrente come rapporto di durata e, data la sua unitarietà, il die a quo della prescrizione decennale veniva posto alla data di chiusura del rapporto bancario.  Tuttavia la visione non era unitaria ed anzi a livello giurisprudenziale e dottrinale si registravano opinioni diverse e discordanti in merito al decorso della prescrizione delle rimesse in conto corrente, tanto che la questione veniva rimessa al vaglio delle Sezioni Unite della Suprema Corte, le quali con la sentenza n. 24418/2010[10] affermarono un dirompente principio di diritto destinato ad aprire nuovi scenari nel contenzioso bancario.

L’arresto della Suprema Corte traeva origine dalla pretesa di un correntista di ripetere nei confronti dell’istituto di credito le somme da questo indebitamente percepite in attuazione della clausola anatocistica nulla[11].

Dopo aver dunque accertato la fondatezza della domanda restitutoria del correntista si rendeva necessario indagare se questa fosse o meno prescritta, essendo il rapporto di conto corrente controverso ultra – decennale.

Dopo un’accurata disamina dei filoni giurisprudenziali in essere, le Sezioni Unite giunsero alla conclusione che la prescrizione delle rimesse dovesse essere computata differentemente a seconda della loro funzione nell’economia del rapporto bancario controverso, mutuando concetti propri del diritto fallimentare.

In particolare chiariva la Suprema Corte che a fronte di una rimessa a carattere solutorio (i.e. che integri gli estremi di un e proprio “pagamento” inteso quale spostamento patrimoniale in favore della banca – circostanza che si verifica nel caso di versamenti su un conto passivo non affidato ovvero quando le rimesse siano destinate a coprire un passivo eccedente i limiti dell’affidamento) la prescrizione decennale decorre a partire da ciascun singolo pagamento.

Viceversa in caso di rimessa a carattere ripristinatorio (i.e. che non integra gli estremi di un “pagamento” in favore della banca ma è strumentale ad ampliare la facoltà d’indebitamento del correntista – circostanza che si verifica nel caso di versamenti su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito) la prescrizione decorre dalla data di chiusura del rapporto bancario[12][13].

In questo scenario si inquadra un nuovo intervento del Governo: venne infatti inserito nel decreto legge 29 dicembre 2010, n. 225 (c.d. decreto Milleproroghe), convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, un articolo 2, comma 61[14] come norma di interpretazione autentica dell’art. 2935 c.c. e dunque con efficacia retroattiva, prevedendo che in tema di annotazioni di rimesse in conto corrente la prescrizione dovesse decorrere dal giorno di ciascuna annotazione, di fatto contravvenendo a quanto espressamente statuto dalla Suprema Corte con la sentenza del 2010.

Si rendeva necessario in questo caso un nuovo intervento della Corte Costituzionale che a motivo del contrasto con l’art. 3 e con l’art. 117 della Costituzione, dichiarava l’illegittimità di tale norma[15].

La questione della prescrizione dei versamenti solutori e ripristinatori è stata di nuovo oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte nel 2014, quando con la sentenza n. 4518 è stato chiarito che il principio di diritto espresso da Sezioni Unite del 2010 dovesse essere esteso anche all’azione di ripetizione degli importi illegittimamente addebitati a titolo di commissione di massimo scoperto. La Corte inoltre coglieva l’occasione per chiarire che i versamenti eseguiti sul conto corrente in costanza di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens e, poiché tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto, una diversa funzione delle singole rimesse deve essere in concreto provata da parte di chi intende far percorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste illegittimamente addebitate.

L’espressione di questo principio di diritto ha dato vita ad un inesplorato scenario circa il fatto che la banca nell’eccepire la prescrizione, debba o meno precisare in modo puntuale quali siano le rimesse solutorie poste in essere nell’arco del rapporto controverso. Per un primo orientamento in presenza di un contratto di apertura di credito non contestato la natura ripristinatoria delle rimesse è presunta e dunque sarà onere della banca che eccepisce la prescrizione allegare e provare quali siano le rimesse a carattere solutorio (cfr. Cass. Civ. n. 4518/14). La conseguenza immediata e diretta di questa ricostruzione giurisprudenziale è rappresentata dal fatto che a fronte di una generica formulazione dell’eccezione di prescrizione da parte della banca, riferita alla generalità dei versamenti in conto corrente intervenuti nei dieci anni precedenti la proposizione della domanda, il giudice non può d’ufficio supplire all’omesso assolvimento dell’onere della prova individuando autonomamente i versamenti solutori[16].

Secondo un differente filone giurisprudenziale l’eccezione di prescrizione è da ritenersi validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l’inerzia del titolare del diritto controverso, e manifestato la volontà di avvalersene (cfr. Cass. Civ. n. 15790/2016), essendo dunque superflua l’individuazione delle singole rimesse solutorie; spetterebbe in questo al Giudice individuare quali rimesse siano rilevanti ai fini della prescrizione. Parimenti ai fini della valida proposizione della domanda di ripetizione d’indebito non è ritenuto necessario che il correntista specifichi le singole rimesse che in quanto solutorie siano ripetibili.

Lo scenario si è dimostrato così complesso e di difficile composizione che il 30.10.2018 la questione è stata nuovamente rimessa all’esame delle Sezioni Unite della Suprema Corte al fine di dirimere il contrasto e definire una volta per tutte con quale modalità l’eccezione di prescrizione debba essere validamente proposta.

Medio tempore si sta registrando la progressiva creazione di un “nuovo” terreno di scontro tra banca e correntista che riguarda l’adempimento dell’onere della prova. In particolare è pressoché pacifico che quando sia la banca ad agire in giudizio per l’accertamento di un credito deve produrre tutta la documentazione atta a dare prova del diritto fatto valere ai sensi dell’art. 2697 c.c.[17]

Altrettanto deve dirsi quando sia il correntista ad agire in giudizio per la ripetizione d’indebito nei confronti della banca: in tal caso sarà dunque l’attore a dover fornire piena prova del diritto rivendicato tramite la produzione di estratti conto e contratti.

A tal proposito l’art. 119 T.U.B. comma 4[18] mette a disposizione del correntista (sempre nell’ottica di riequilibrare il rapporto ontologicamente sproporzionato tra banca e cliente) la possibilità di richiedere all’istituto di credito copia di tutta la documentazione contrattuale e contabile riguardante i rapporti bancari intercorsi, che la banca ha l’obbligo di conservare per dieci anni[19].

L’obbligo in capo alla banca di consegna della documentazione consegue difatti al dovere generale di comportamento secondo correttezza, imposto peraltro ad entrambi i contraenti di un contratto a mente dell’art. 1175 c.c. e 1375 c.c.[20]

Proprio con riferimento al tema della produzione documentale in giudizio le banche sempre più spesso eccepiscono il mancato adempimento dell’onere della prova in capo al correntista a motivo della carenza di sparuti trimestri di estratti conto[21].

Benché la giurisprudenza di merito e di legittimità sia dell’idea che una simile circostanza non osti all’accoglimento della domanda di ripetizione d’indebito giacché ciò comporta esclusivamente la ripresa del saldo banca (a discapito del cliente) ma non l’impossibilità di ricostruire il rapporto dare – avere tra le parti[22], non sono mancate pronunce di segno opposto che hanno rigettato la domanda attorea (pur fondata nel merito) ritenendo non pienamente assolto l’onere della prova[23] a causa della mancata produzione di alcuni trimestri di estratti conto.

Altro aspetto controverso riguarda l’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. che consente – almeno in astratto – al correntista di ottenere (forzosamente) copia della documentazione contrattuale e contabile in fase giudiziale. Di fronte ad una simile istanza avanzata dal cliente le banche spesso oppongono la natura esplorativa della richiesta ovvero la pregiudizialità del rimedio ex art. 119 T.U.B.

In proposito è il caso di osservare che la giurisprudenza maggioritaria è dell’avviso che “il diritto del cliente ad avere copia della documentazione ha natura sostanziale e non meramente processuale e la sua tutela si configura come situazione giuridica “finale”, carattere non strumentale. Non trovano pertanto applicazione, nella fattispecie, i principi elaborati dalla giurisprudenza in ordine di esibizione dei documenti ex art. 210 cod. proc. civ. e non può pertanto negarsi il diritto del cliente di ottenere copia della documentazione richiesta, adducendo a ragione e in linea di principio la natura meramente esplorativa dell’istanza in tal senso presentata” (ex multis Cass. n. 11004/2006, Cass. 3875/2019).

Allo stesso modo la Sentenza della Cassazione Civile n. 11554 dell’11.05.2017 ha chiarito che lo strumento ex art. 119 TUB, quarto comma, sorto come mezzo di tutela del cliente nei confronti dell’Istituto di credito, non deve divenire una penalizzazione “in via indebita facendo transitare la richiesta di documentazione del cliente dalla figura della libera facoltà a quella, decisamente diversa, del vincolo dell’onere”.

Conclude dunque la Suprema Corte che se non può mettersi in dubbio l’esistenza di un conto corrente, non contestato dalla Banca, e dunque l’esistenza della documentazione relativa alla sua gestione, in ragione dei contenuti propri della norma dell’art. 119 comma 4 T.U.B., il «correntista ha diritto di ottenere dalla Banca il rendiconto, anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale» (Cass., n. 21472/2017).

Anche su questo spinoso tema non sono però  mancate pronunce dissonanti che, aderendo ad un minoritario indirizzo di legittimità, hanno negato la concessione dell’ordine di esibizione adducendo la natura esplorativa della richiesta sulla base del fatto che “il mancato assolvimento dell’onere probatorio non possa essere sanato mediante richiesta di esibizione ex art. 210 Codice di procedura civile con riferimento a documenti di cui la parte doveva avere la disponibilità già prima dell’introduzione del giudizio”[24]

Data l’estrema delicatezza delle questioni (soprattutto per l’impatto sulla sfera soggettiva degli utenti) sarebbe auspicabile l’intervento delle Sezioni Unite al fine di dirimere il contrasto esistente in un’ottica di certezza del diritto.

 

Avv. Emanuele Argento

 

[1] Fonte: “Gli oneri probatori nel contenzioso bancario” di Massimo Falabella, in PQM – Rivista semestrale abruzzese di giurisprudenza e di vita forense – n. 2 – Dicembre 2018.
[2] Sentenza consultabile al seguente indirizzo: http://www.movimentoimprese.it/wp-content/uploads/2013/07/Cass-16.03.1999-n.-2374.pdf

[3] La disposizione recitava come segue:

“2. Dopo il comma 1 dell’articolo 120 t.u. è aggiunto il seguente:

“2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori”.

[4] Per i contratti successivi all’entrata in vigore della delibera CICR, l’art. 6 prevede inoltre che le “clausole relative alla capitalizzazione degli interessi non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto”.

[5] La disposizione recita come segue:

“3. Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi dell’adeguamento. In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente.”

[6] All’art. 7 della citata Delibera C.I.C.R. viene dettata la disciplina per i precedenti rapporti disponendo che:

“1. Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30/6/00 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio.

  1. Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30/6/00, possono provvedere all’adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile, e, comunque, entro il 30/12/00.
  2. Nel caso in cui le nuove condizioni contrattuali comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, esse devono essere approvate dalla clientela.”
[7] Sentenza consultabile al seguente indirizzo: http://www.giurcost.org/decisioni/2000/0425s-00.html
[8] Al riguardo la Cassazione a Sezioni Unite (n. 21095/04) ha avuto modo di precisare che “in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della corte costituzionale n. 425/00, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76, Cost., l’art. 25, comma terzo, D. Lgs. n. 342/99, il quale aveva fatto salva la validità e l’efficacia – fino all’entrata in vigore della delibera CICR di cui al comma 2 del medesimo art. 25 – delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283, cod. civ.”
[9] Sentenza consultabile al seguente indirizzo: http://www.dirittobancario.it/sites/default/files/allegati/Materiale_Novembre_2005258760.pdf
[10] Sentenza consultabile al seguente indirizzo: https://www.ilsole24ore.com/pdf2010/SoleOnLine5/_Oggetti_Correlati/Documenti/Norme%20e%20Tributi/2011/06/guida-risparmio/cassazione-24418-2010.pdf
[11] Al riguardo affermano le Sezioni Unite che “è stata dichiarata nelle pregresse fasi del giudizio di merito la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente, che figurava nei contratti di conto corrente bancario di cui si tratta, in conformità all’orientamento di queste sezioni unite, secondo cui la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario va esclusa anche con riguardo al periodo anteriore alle decisioni con le quali la Suprema corte, ponendosi in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale sin lì seguito, ha accertato l’inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare al precetto dell’articolo 1283 c.c. (Sez. un. 4 novembre 2004, n. 21095).”
[12] “Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati“.
[13] Chiarisce la Suprema Corte che in ipotesi simili “Di pagamento […] potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto”.
[14] In particolare la norma così recitava: “In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge”.

[15] In particolare la Corte Costituzionale ha osservato che “la norma censurata, con la sua efficacia retroattiva, lede in primo luogo il canone generale della ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.). Invero, essa è intervenuta sull‘art. 2935 cod. civ. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario in detta giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede di legittimità ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso del suddetto termine. Inoltre, la soluzione fatta propria dal legislatore con la norma denunziata non può sotto alcun profilo essere considerata una possibile variante di senso del testo originario della norma oggetto d‘interpretazione. Come sopra si è notato, quest‘ultima pone una regola di carattere generale, che fa decorrere la prescrizione dal giorno in cui il diritto (già sorto) può essere fatto legalmente valere, in coerenza con la ratio dell‘istituto che postula l‘inerzia del titolare del diritto stesso, nonché con la finalità di demandare al giudice l‘accertamento sul punto, in relazione alle concrete modalità della fattispecie. La norma censurata, invece, interviene, con riguardo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, individuando, con effetto retroattivo, il dies a quo per il decorso della prescrizione nella data di annotazione in conto dei diritti nascenti dall‘annotazione stessa.

Ma la ripetizione dell‘indebito oggettivo postula un pagamento (art. 2033 cod. civ.) che, avuto riguardo alle modalità di funzionamento del rapporto di conto corrente, spesso si rende configurabile soltanto all‘atto della chiusura del conto (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 24418 del 2010, citata). Ne deriva che ancorare con norma retroattiva la decorrenza del termine di prescrizione all‘annotazione in conto significa individuarla in un momento diverso da quello in cui il diritto può essere fatto valere, secondo la previsione dell‘art. 2935 cod. civ. Pertanto, la norma censurata, lungi dall‘esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935 cod. civ., ad esso nettamente deroga, innovando rispetto al testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione.”

[16] Il principio è espresso chiaramente in Cass. Civ.  n. 20933/2017.
[17] Regola che permea anche l’eventuale giudizio a cognizione piena instaurato dal correntista con atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, nell’ambito del quale la banca rivesta pur sempre il ruolo di attrice in senso sostanziale.
[18] “4. Il cliente, colui che gli succede a qualunque titolo e colui che subentra nell’amministrazione dei suoi beni hanno diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni. Al cliente possono essere addebitati solo i costi di produzione di tale documentazione.”

[19] In realtà vi è da ritenere che l’obbligo di conservazione per dieci anni riguarda esclusivamente gli estratti conto e non invece i contratti, che il correntista ha diritto di richiedere in qualunque momento, anche dopo che sia trascorso il termine di durata sancito dalla disposizione in parola.

In questa direzione la Corte d’Appello di Milano (sez. I civ. – Est. Dott.ssa Carla Romana Raineri), che con la sentenza n. 1796 del 2012, ha affermato che la banca è obbligata alla conservazione del contratto senza alcun limite temporale, non essendo applicabile al contratto quanto disposto all’art. 119 T.U.B. per la sola documentazione bancaria (estratti-conto).

[20] Tali norme impongono “a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte; tra i doveri di comportamento scaturenti dall’obbligo di buona fede vi è anche quello di fornire alla controparte la documentazione relativa al rapporto obbligatorio ed al suo svolgimento” (Cass. n. 12093/2001).
[21] Trimestri mancanti che molto spesso sono le stesse banche a non fornire, rendendosi inadempienti rispetto all’obbligo ex art. 119 TUB.

[22] Cfr. Sentenza n. 1233/2016 del Tribunale di Macerata in persona del Dott. Polimeni, il quale ha sapientemente sottolineato che nel caso in cui il correntista agisca in ripetizione d’indebito “dovrà produrre il contratto di conto corrente, gli estratti conto relativi a tutto il rapporto contrattuale e, nel caso in cui non provveda in tal ultimo senso, la ricostruzione del rapporto di dare-avere sarà circoscritta al periodo in relazione al quale risultano prodotti gli estratti.”

Continua il Tribunale di Macerata con l’affermare che in casi simili “è necessario effettuare le operazioni di ricalcolo a decorrere dall’estratto di c/c o dal conto scalare più risalente prodotto in atti, prendendo a riferimento il saldo ivi risultante e, là dove la documentazione in atti sia lacunosa per periodi intermedi, procedendo al calcolo per blocchi, considerando come saldo iniziale quello risultante dal successivo estratto o conto scalare da cui riprende la serie storica […]. Conseguentemente, le lacune non possono che andare a discapito di parte attrice senza comportare, nei suoi confronti, alcun tipo di vantaggio nella ricostruzione contabile del rapporto.”

Dello stesso segno la recentissima Ordinanza di Cass. Civ. n. 31187 del 03.12.2018 (G.R. Dott. Genovese) secondo cui “qualora il cliente limiti l’adempimento del proprio onere probatorio soltanto ad alcuni aspetti temporali dell’intero andamento del rapporto, versando la documentazione del rapporto in modo lacunoso e incompleto, il giudice può integrare la prova carente, sulla base delle deduzioni in fatto svolte dalla parte, anche con altri mezzi di cognizione disposti d’ufficio, in particolare con la consulenza contabile, utilizzando, per la ricostruzione dei rapporti di dare e avere, il saldo risultante dal primo estratto conto, in ordine di tempo, disponibile e acquisito agli atti.”

[23] Cfr. Sentenza n. 170/2019 del Tribunale di Teramo in persona della Dott.ssa Imbesi, secondo la quale “solo la produzione della intera sequenza degli estratti conto consente di ricostruire in maniera puntuale il rapporto contrattuale intercorso tra le parti e di verificare la pattuizione e la concreta applicazione di interessi anatocistici o di altri pretesi oneri illegittimi.”
[24] In questo senso sempre Tribunale di Teramo, n. 170/2019.

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